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CETTE EUROPE QU’ON DIT CENTRALE. Des Habsbourg à l’intégration européenne 1815-2004
[200007]

CETTE EUROPE QU’ON DIT CENTRALE. Des Habsbourg à l’intégration européenne 1815-2004

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Date d'ajout : samedi 08 janvier 2011

par Daniele ZAPPALA

AVVENIRE 6 NOVEMBRE 2009

Durante 50 anni, quasi tutta l’Europa occidentale ha parlato di "Europa dell’Est" per riferirsi al blocco comunista. Ma in questa vaga Europa dell’Est, è stata per così dire annegata l’Europa centrale. Solo adesso, è possibile riscoprire appieno tutte le affinità non solo culturali che legano ancor oggi le nazioni che composero l’Impero asburgico». Per questo, a 20 anni dalla caduta del Muro, la studiosa francese Catherine Horel, docente a Parigi ma già anche a Vienna e Lovanio, pubblica un’opera ponderosa che intende dirimere tanti malintesi addensatisi nel tempo sugli odierni 7 Paesi della regione storico- culturale: Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria, Slovenia e Croazia. Cette Europe qu’on dit centrale (« Quest’Europa detta centrale », Beauchesne) scandaglia anche le opportunità legate alla recente inclusione nell’Unione europea. « Con l’integrazione, quest’Europa è tornata davvero centrale, nonostante il permanente muro d’indifferenza dei pubblici occidentali ».
Si può dire che il dominio sovietico ha rappresentato un tentativo d’assassinio verso l’identità di tutta la regione ?
« Sì, perché la globalizzazione sovietica ha tentato di distruggere l’Europa centrale. Tutti gli elementi della sua identità sono stati negati dai regimi comunisti col pretesto che tali specificità culturali erano reazionarie, borghesi, religiose. La maggioranza di queste specificità provenivano dall’Impero asburgico, visto dall’ideologia comunista come il male assoluto. I rapporti con Vienna e col cuore della Germania, in particolare, sono stati sistematicamente tagliati». L’«Europa dell’Est» sopravvive nel nostro immaginario di occidentali? « Il turismo di massa che si è riversato in particolare su Praga e Budapest sta cambiando le mentalità, nonostante l’estrema uniformità dei circuiti proposti. Ma non tutti gli europei viaggiano. Ed è anche vero che, accanto al pervicace vecchio stereotipo di un’Europa dell’Est come zona sostanzialmente estranea alla vera Europa, compaiono nuovi stereotipi. In particolare quello che associa automaticamente tutti questi Paesi alle mafie, ai traffici, alla prostituzione, alle popolazioni rom ».
Nelle letterature della regione, è frequente il tema del martirio. È davvero un tratto saliente dell’identità mitteleuropea ?
« È in effetti un tema classico dell’Europa centrale, da sempre circondata da grandi potenze. Non potendo celebrare delle vittorie, molti Paesi hanno finito per celebrare le sconfitte. La sventura e i martirologi hanno integrato le identità nazionali. Ancor oggi, si tratta di un autentico problema, poiché queste società hanno delle difficoltà a immaginarsi in un ruolo positivo, di successo. In un certo senso, si tratta dell’antitesi assoluta rispetto a Paesi come la Francia. Dal 1989, c’è stata nondimeno un’enorme evoluzione soprattutto in Polonia, Ungheria e Repubblica ceca. Le nuove classi dirigenti, scavalcando il tradizionale immaginario negativo, cercano di porsi come vincitrici della transizione democratica». Vent’anni dopo, la ricerca di una nuova identità continua? «Il peso della storia resta. Ma una nuova generazione si prepara a costruire il futuro. I maturandi di oggi sono nati dopo il 1989. Una parte dei dirigenti vuole voltare pagina, anche se frange delle vecchie guardie tentano di aggrapparsi al potere. Al contempo, non mancano nuovi rigurgiti deteriori di nazionalismo. Anche per questo, è forse presto per parlare dappertutto di maturità democratica». A Praga, Benedetto XVI ha appena ricordato che la matrice storica comune della regione è cristiana. Come si presenta quest’eredità? «Gli antichi abitanti dell’Impero asburgico avevano l’abitudine del confronto fra confessioni. Dunque, si tratta di una tradizione cristiana all’insegna della tolleranza. I cattolici, maggioritari, affiancavano i protestanti, gli ortodossi greci e uniati, gli ebrei di riti diversi, in certe aree anche i musulmani. Nell’Impero asburgico, il livello di coscienza religiosa fu molto forte. Non a caso, le uniche statistiche davvero affidabili erano proprio quelle religiose. Mentre per quelle a carattere nazionale o linguistico, si tendeva molto più spesso a mentire. Dopo il 1918, con una certa omogeneizzazione nazionale, la tolleranza si è trasformata in una crescente indifferenza verso gli altri. Il comunismo ha poi ateizzato, o scristianizzato, una vasta parte della regione».
Quest’impoverimento spirituale è oggi riconosciuto ?
«Sempre più spesso. Si riconosce che la dominazione sovietica ha livellato tutto verso il basso. Soprattutto all’interno delle coscienze, ancor più che nel campo economico. Se il cattolicesimo polacco ha resistito, altrove gli effetti sono stati molto più devastanti».
Dopo l’euforia del 1989, la libertà resta oggi il valore guida di questi Paesi ?
«Resta un valore molto importante, soprattutto per chi ha conosciuto i regimi. Anche se ormai non c’è più molta voglia di parlare di quel passato. I giovani paiono sensibili soprattutto alla libertà d’intraprendere e di viaggiare ».
"La verità vincerà", sta scritto sul Castello di Praga. Il motto resta attuale ?
« Lo slancio di verità del 1989 si è concentrato sulle grandi figure di Stato. Ma poi, quando la ricerca della verità ha bussato alla porta dei semplici cittadini, per così dire, ciò ha generato infiniti conflitti e distrutto tante famiglie. Anche per questo, benché gli archivi siano oggi accessibili, domina ormai un sentimento ambivalente. Si vorrebbe sapere, ma si ha paura di scoprire ».


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