Editions BEAUCHESNE

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02. LIRE LES PÈRES DE L’ÉGLISE ENTRE LA RENAISSANCE ET LA RÉFORME. Six contributions éditées par Andrea Villani

02. LIRE LES PÈRES DE L’ÉGLISE ENTRE LA RENAISSANCE ET LA RÉFORME. Six contributions éditées par Andrea Villani

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Date d'ajout : lundi 05 décembre 2016

par Pasquale Terracciano

REVUE : ADAMANTIUS, 11/2016

Il volume raccoglie gli atti dell’omonimo convegno tenutosi a Tours, presso il «Centre d’études supérieures de la Renaissance», nel 2010: li presenta, vergando la prefazione, Bernard Pouderon, codirettore della collana «Christophe Plantin», e nome ben noto agli studiosi della patristica e della sua fortuna rinascimentale. A caratterizzare gli interventi, e a darvi omogeneità, vi è il fatto che gli autori non sono direttamente degli studiosi della prima età moderna, bensì filologi e storici del cristianesimo antico che si confrontano con la ricezione di testi che studiano abitualmente nel loro contesto originario. Uno sguardo obliquo, che non mira ad essere esaustivo, ma che è certamente fruttuoso nell’inquadrare almeno una parte dei problemi che la rinnovata attenzione al corpus patristico portò con sé tra Quattrocento e Cinquecento.
Lo sforzo filologico prodotto nel secolo XV, come risposta a esigenze culturali e a una crisi spirituale in atto, e la misura dell’impatto che la riscoperta patristica ebbe nella cesura confessionale del secolo successivo hanno spesso alimentato tradizioni di ricerca differenti: entrambi gli oggetti di ricerca, in ogni caso, sono stati indagati con nuova fortuna e nuove prospettive da almeno un trentennio, venendo spesso verso un’utile ibridazione, di cui la raccolta è un esempio. Il volume offre dunque dei tasselli per affrontare la più generale questione del modo in cui i testi dei Padri vennero posti in dialogo con il canone cattolico in mutazione e con i canoni protestanti in formazione. L’attenzione specifica della maggior parte dei saggi (4 articoli su 6) è rivolta non tanto (o non solo) alla circolazione, all’utilizzo esegetico, apologetico o teologico, quanto all’atto stesso della traduzione e ai suoi paratesti: tale elemento costituisce il tratto distintivo più forte della raccolta. I contributi affrontano così dediche, rielaborazioni tematiche, vicende editoriali, scelte di traduzione. Attraverso questa chiave si mostrano così le due tendenze generali in atto in quell’operazione: il desiderio "archeologico" di disseppellire testi dimenticati, consentendone la circolazione, e quello di riscoprire la verità del cristianesimo, incrostato da speculazioni e polemiche successive. Mettere dunque a disposizione il testo meno corrotto, estrarne il senso ritenuto più profondo: operazioni che non sempre vennero condotte di pari passo.
Per gli umanisti quelle traduzioni furono parte di un più largo tentativo di appropriarsi dell’antica sapienza nelle sue diverse direzioni (e dunque di ‘fissare’ quella sapienza nel nuovo mezzo tecnologico dato dalla stampa). E’ certo vero che i temi di controversia religiosa crebbero con l’avanzare dei decenni, ma, come implicitamente mostrato a più riprese nel volume, sarebbe ingenuo ricondurre in maniera meccanica le due tendenze – quella "archeologica" e quella controversistica – l’una a un Umanesimo senza problemi e l’altra a delle Riforme senza scrupoli: esse si intrecciano e si sovrappongono, dovendosi verificare nei singoli casi e nei singoli contesti. A mostrare l’irriducibilità verso una regola generale provvedono i contributi del volume, che si concentrano su elementi e decenni diversi, percorrendo così diversi sentieri del nachleben patristico. Di grande interesse, a tal proposito, è l’intervento di Andrea Villani, Cristoforo Persona et le première traduction en latin du Contra Celsum d’Origène, (pp. 11-54) che getta luce sulle tre dediche esistenti della traduzione latina di Cristoforo Persona del Contra Celsum, edito a Roma nel 1481 e atto di ingresso editoriale dell’Alessandrino nell’epoca a stampa. Le dediche erano note agli studiosi della fortuna di Origene senza che ne venisse però affrontata più diffusamente la funzione, come opportunamente fa Villani. L’edizione fu frutto di iniziativa di Teodoro Gaza e si inserì in una movimento di ripresa dei Padri, inizialmente patrocinata dal Parentucelli (papa Niccolò V). E’ un Origene che è ancora al di qua dei sospetti rintracciati dai teologi romani nelle tesi di Pico (1486) e dunque della difesa contenuta nella sua conseguente Apologia; allo stesso modo, un Origene diverso dal dottissimo esegeta adottato da Erasmo. Allo stato delle conoscenze, l’edizione romana va in primo luogo considerata come tessera di un più generale disegno teso a rendere noto ciò che rimaneva in disparte della cultura di fase ellenistica, piuttosto che rivolta all’approfondimento diretto del pensiero origenista. Nel licenziare la traduzione, Persona dedica alcuni esemplari al doce Mocenigo e al senato veneziano, altri a Sisto IV, altri ancora a Ferdinando d’Aragona; il grecista romano si mostra piuttosto indifferente alla teologia dell’Alessandrino (e da qui una delle spiegazioni del poco successo storiografico arriso alle dediche) ma sottolinea l’elemento apologetico dell’opera con uno sguardo agli avvenimenti mediterranei. L’operazione editoriale vede infatti la luce nel 1481, poco dopo la conquista di Otranto e dopo che Sisto IV aveva lanciato un appello per una crociata antiturca. L’analisi delle dediche mostra come l’immagine di Origene venisse utilizzata alla luce della situazione contemporanea, in particolare per scuotere le titubanze della Serenissima: si offriva quindi l’inflessibile apologeta della vera religione contro gli infedeli, a ricordare il dovere dei principi cristiani. Persona non esita a radicalizzare la stessa prefazione al Contra Celsum, per legittimare un volto di Origene fremente d’indignazione (che verrà peraltro subito soppiantato, in Giovanni Pico e poi nel corso del XVI secolo, dal modello dell’investigatore della fede ardente di verità ma sempre aperto alla cautela metodologica e alle possibili correzioni delle sue interpretazioni).
Il saggio di Emiliano Fiori La perte de l’ordre sacramental et le centre du monde (pp. 55–67) si sofferma su un aspetto cruciale dello sviluppo del progetto platonico di Marsilio Ficino e più in generale del platonismo cristiano del XV secolo: cioè il rapporto con Dionigi l’Areopagita, tema che ha ricevuto nuovo impulso negli ultimi anni, anche in virtù della recente edizione delle opere dionisiane di Ficino da parte di Pietro Podolak (Dionysii Areopagitae De mystica theologia - De divinibus nominibus interprete Marsilio Ficino, Napoli 2011). Fiori mostra come l’appropriazione dell’Areopagita proceda di pari passo a un progressivo oblio del nesso organico che vi era, nel suo pensiero, tra gerarchia angelica e gerarchia ecclesiastica-sacramentale. I punti nodali dell’operazione condotta da Ficino, al quale preme una prospettiva sull’anima funzionale al proprio sistema teologico, si distanzierebbero così da un corretto intendimento dell’Areopagita. Se Ficino vede dunque nell’Areopagita il culmine del platonismo e il culmine del cristianesimo (p. 58), Dionigi non potrebbe però entrare nel sistema ficiniano se non abbandonando i tratti che, agli occhi dell’estensore del saggio, sono quelli più specificamente cristiani. (Non è del resto accusa nuova: nel 1594 Giovan Battista Crispo scriveva «Ficinum certe tamquam Platonicum agnosco, sed tamquam Christianum in hac cautione aegre admitto»). In questo modo Ficino – poco interessato alla mediazione ecclesiastica o comunque tentato da ambizioni di riforma della religione – modella un platonismo cristiano centrato sull’individualismo della salvezza, le cui tracce saranno poi presente anche in un autore ben più radicale come Giordano Bruno. Come si vede, la questione riguarda un aspetto sempre vivo della critica ficiniana: cioè il giudizio del rapporto tra filologia, filosofia e teologia, che coinvolge il grado dell’adesione di Marsilio all’ortodossia cristiana e l’esistenza o meno di limiti posti in essere alla sua speculazione (si rimanda su questo ai lavori di M. J. B. Allen, J. Hankins e J. Kraye).
Se il rapporto di Ficino con Dionigi va a toccare dunque uno dei punti di volta della stagione platonizzante tardoquattrocentesca, il saggio di Mickaël Ribreau, Luther lecteur du Contra Iulianum d’Augustin (pp. 68-96), a partire dall’analisi del nesso Agostino-Lutero, chiama in causa il rapporto, complesso e contrastato, tra Riforma e Padri. Il testo antipelagiano dell’Ipponenese contro il vescovo Giuliano di Eclano non è certamente ignoto alla storiografia su Lutero (in particolare L. Grane, G. Pani, H. U. Delius) ma necessita di ulteriori messe a fuoco, anche andando oltre l’utilizzo attestato nei commenti giovanili a Paolo. L’esigenza emerge del resto pure nel recentissimo J. Lopes Pereira, Augustine of Hippo and Martin Luther on Original Sin and justification of the sinners, (Göttingen 2013; che però, sulla specifica questione, mi pare fermarsi a una promessa non completamente mantenuta). Ribreau sottolinea i debiti esegetici contratti sul tema della virtù dei pagani e al riguardo del rapporto tra male e peccato. Dal Contra Iulianum, del resto, il monaco sassone estrasse la ben nota formula del ‘servo arbitrio’. R. esplora in profondità le declinazione della lettura luterana di Agostino, registrando le forzature radicali del sassone sul punto cruciale della grazia: le pagine sono così molto utili per seguire le direzioni e le strategie esegetiche di Lutero, anche per chi non condivida il giudizio sul grado di distanza che separa Agostino dal riformatore.
Da Agostino e Lutero si passa a Nilo d’Ancira e ai suoi traduttori, senza perdere in densità e profondità. Il saggio di Luciano Bossina, Tradurre un titolo. Nilo di Ancira e il suo Discorso Ascetico fra Cinque e Seicento (pp. 69-122), esplora analiticamente la fortuna e i fraintendimenti della biografia del monaco Nilo, guidando il lettore tra le diverse figure che vi si soffermarono (Willibald Pirckheimer, Pierfrancesco Zini, Leone Allacci, Josè Maria Suares). Nel fare ciò mostra sapientemente come la spinosa questione della traduzione del titolo – Logos asketikos – presenti implicazioni ideologiche cruciali. Barbara Villani, Trois traducteurs du De Adoratione de Cyrille d’Alexandrie au XVIe siècle (pp. 123-148) ripercorre invece le scelte che guidarono Johannes Oecolampadius, Bonaventura Vulcanius e Antonio Agelli – un riformatore, un letterato, un biblista cattolico – nel tradurre il De Adoratione di Cirillo d’Alessandria. Si ha qui un caso in cui le traduzioni, sia di provenienza cattolica che protestante, rimangono al di fuori dalla questioni controversistiche e sono dettate più da elementi esteriori che da un interesse verso il testo stesso (p. 141). Così come, seppur in maniera minore, risultano sfumati gli scopi controversistici nelle traduzione del discorso Sulla divinità del Figlio e dello Spirito di Gregorio di Nissa, che pure ebbe un traduttore d’eccezione nel mondo protestante: il melantoniano Joachim Camerarius (1564) e una fortuna testimoniata dalle tre diverse edizioni susseguitesi in pochi decenni. Come mostra il saggio di Matthieu Cassin, Le discours Sur la divinité du Fils et de l’Esprit de Grégorie de Nysse. Intérêt littéraire et controverses religieuses (pp. 149-173) una nuova edizione dell’opera di Gregorio venne infatti poco dopo condotta dall’umanista cattolico Laurent Sifanius, all’interno di un progetto più complessivo di pubblicazione progressiva dei testi del Padre della Chiesa; e infine vi si impegnò l’umanista protestante David Hoeschel, che –ignorando, a quanto pare, il lavoro di Sifanius – intendeva migliorare l’edizione di Camerarius.


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